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“Il pastore d’Islanda” di Gunnar Gunnarsson

23/12/2022

“Quando una festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo. Ce ne sono molti e anche Benedikt aveva il proprio, che consisteva in questo; quando iniziava il digiuno natalizio, o meglio, se il tempo lo permetteva, la prima domenica d’Avvento, si metteva in viaggio…se ne andava tra le montagne, che in quel periodo dell’anno erano popolate solo dagli uccelli predatori più resistenti, dalle volpi e da qualche pecora sperduta. Proprio di queste Benedikt andava in cerca, bestie sfuggite ai tre raduni regolari dell’autunno… Benedikt aveva una specie di responsabilità nei loro riguardi. Il suo scopo era semplice: trovarle e ricondurle a casa sane e salve prima che la grande festa portasse la sua benedizione sulla terra, e pace e gioia nel cuore degli uomini di buona volontà.”

Questo gioiello poetico regala la possibilità a chi lo avvicina di domandarsi quale sia l’apparecchiamento personale alla celebrazione di una festa simbolicamente così importante come il Natale.  La vera essenza di questo racconto – con lo sguardo religioso ricorda la Novella del Buon Pastore e con quello letterario la Regina delle nevi di Andersen – è quella di un viaggio curativo al centro dell’esistenza, un vero cammino tra attesa, speranza e preparazione, un intreccio di filosofia, fede e amor mundi.

“C’era un senso di sacralità…Nel mezzo di quel mondo raggelato che si dissolveva nelle tenebre, come se fosse anche lui parte della sera buia c’è l’uomo Benedikt, è lì con i suoi amici più fedeli e quel mondo è il suo.

Da ben ventisette anni, numero cabalistico che corrisponde alle lettere dell’alfabeto ebraico, Benedikt parte durante la prima domenica d’avvento e intraprende questo viaggio che è un vero e proprio pellegrinaggio in compagnia di altre due anime, due animali che perdono questa connotazione per essere dei semplici esseri viventi, dei pari in coraggio e dignità che gli consentono di affrontare con tenacia le forze della natura e non sentirsi abbandonato al nulla.

“Da anni i tre erano inseparabili quando c’era da fare quella gita, e ormai si conoscevano a fondo, con quella dimestichezza che forse è possibile solo tra specie animali molto diverse, e che nessuna ombra del proprio io e del proprio sangue, nessun desiderio o passione personale può confondere o oscurare.”

Durante questo cammino mistico Benedikt si scontra con le paure dell’uomo: la morte e la perdita, la solitudine, l’immensità della natura con la sua violenza e il senso di straniamento che produce, il trascorrere ineluttabile del tempo, la necessità di lasciare qualcosa, di appartenere, di salvare avvertito proprio durante il periodo dell’Avvento che significa Attesa e ancor più Venuta.

“Ma la tempesta non accennava a diminuire, non aveva la minima considerazione per Benedikt, per i suoi presentimenti e desideri. Sembrava impossibile che avesse tanto fiato da ruggire con tale forza per un giorno intero, in quella stagione dell’anno, eppure era così. La poca luce che i mulinelli di neve trituravano senza sosta diventava sempre più fioca, ridotta a puro nulla, a una tenebra dai vaghi riflessi di luna, tenebra di neve, tenebra vorticosa. E sempre la stessa furia, un muggire affannoso come di giganti in lotta, scontro di forze invisibili, eterno e sconfinato, una notte urlante e indemoniata.”

La lotta ancestrale tra l’uomo e la natura lascia spazio a una domanda di senso intima e spirituale: come riconciliarsi con il mondo e con la sua esistenza. La risposta viene trovata nel rito sacro e irrinunciabile del viaggio nella tempesta per ritrovare sé stessi e la propria umanità.

L’uomo si aggrappa alle sue cose, si aggrappa a sé stesso e alle sue cose al di là della morte, teme che la vita gli sfugga tra le mani – è questa la più reale di tutte le realtà, la più fragile di tutte le fragilità, la più infinita tra le cose infinite. Teme la solitudine, che è la condizione stessa della sua esistenza. Teme di non essere più circondato dal prossimo e forse d’essere dimenticato da Dio.”

Il sogno del dì di festa lo accompagna anche quando tutto sembra perduto; la resilienza, la vicinanza ai suoi amici, il coraggio e la pacatezza nutriti da un profondo sentimento di gratitudine lo conducono fino alla terra degli uomini dove la paura di non avere a chi passare il testimone viene assorbita dalla grazia e dalla quiete dopo la tempesta.

“Gli uomini che camminano nel buio sono stranamente perduti gli uni per gli altri. Eppure quaggiù, nelle regioni abitate, il senso di solitudine non è mai tanto completo…
Una candela solitaria è quasi come una persona, un’anima abbandonata al dubbio, che inaspettatamente si trasforma quando qualcuno si avvicina, quando non è più sola. Così anche quella candela. (…) Come i tre uomini entrarono dalla porta, lei non fu più sola e abbandonata, a un tratto aveva un servizio da rendere, un compito da assolvere. Prima di passare in casa il contadino strinse lo stoppino della candela tra due dita. È un atto di compassione verso la luce, non lasciare che si consumi invano, meglio riaccenderla quando ce n’è bisogno.”

 

Recensione a cura di Alessandra Manzoni 

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